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Player one

Copertina del libro

La teoria dell'effetto Jenga digitale

Prima che mi addentri in questo pippotto, per cortesia, fate questa controprova. Aprite Youtube con il vostro smartphone e cercate, se ne avete creata mai una, la playlist più vecchia di video che avete (preferiti, o "guarda più tardi" o una delle vostre personali).

Se siete fortunati avrete solo un paio di "video non disponibile", come un sorriso sdentanto tra il video di un gattino e una parodia di Call Me Maybe.

Poca roba, ma è dato interessante per capire che tutto quanto è — in questo esatto momento — disponibile su internet (e parliamo di milioni di yottabyte) non lo sarà più nell'arco di pochi mesi: una grossissima fetta di dati (nostri dati, miei dati, alcuni personalissimi) ogni giorno è oscurata, eliminata, censurata o più semplicemente dimenticata. 

Per sempre.

E no, non mi riferisco solo al video del gatto che si comporta come un canevideo di cui tutt'ora mi vergogno di aver messo il mi piace, eh.

Quasi certamente i video su YouTube sono stati eliminati per infrazioni sui diritti del copyright o perché l'autore non vuole che si guardi un determinato contenuto dallo smartphone (perché?? Non me lo spiegherò mai) ma anche il più legale dei vari siti on-demand elimina la nostra serie o il nostro album preferito senza grossi complimenti. 
Contenuto che abbiamo regolarmente pagato, anche se poco, sparito perché considerato poco proficuo.

Tutto passa sotto questa mannaia digitale: contenuti pagati, piratati o personali.

Vi sfido a trovare un vostro vecchio post, magari di 5 anni fa, su Facebook. Non c'è il box di ricerca, tutti i vostri pensieri passati sono precipitati nell'oblio fino al momento in cui Facebook stesso non li ripesca per dirvi cosa facevate esattamente un anno fa e farvi sentire vecchi e ridicoli.

Sia chiaro, questa sorta di amnesia selettiva non sarebbe un male, questo gruviera digitale c'è sempre stato sin dagli albori del WWW. Esistono milioni di siti, interi siti, alcuni famosissimi e utilizzatissimi, che sono scomparsi da un giorno all'altro, puff, spariti, solo perché era più remunerativo spegnere il server piuttosto che dimenticarsene e lasciare tutto così com'è.

Di anno in anno ci hanno fatto credere che lo spazio fisico è sempre più economico, infinito, praticamente gratuito, un motto che ha fatto la fortuna di Gmail, Flickr o Dropbox e similari.

Eppure se questa musa non cattura abbastanza utenti coi loro dati da rivendere, coi loro click da profilare, qualcuno passa e spegne tutto. Tanti cari saluti e GIAO.

E questo l'han fatto tutti i più grandi player del web, quelli che si sbracciano per trovare un modo per "risolvere" il digital-divide: Google, Facebook e Microsoft in primis.

Addirittura di Google esiste un cimitero virtuale con le lapidi di tutti i progetti passati a miglior vita, alcuni che erano davvero popolarissimi (qualcuno ricorda Google Reader?). Sono defunti tutti i blog e i servizi correlati (sentite come Technorati, Blogger, Splinder, Feedburner suonano antichi).

Tutti i "social bookmark" sono miseramente crollati come ad esempio Digg e StumbleUpon. I servizi di personalizzazione dei grandi portali — ricordo che Yahoo aveva un pannello fighissimo — sono tornati semplicemente grossi inutili portali. Tutto quanto era personalizzabile è tornato ad essere passivamente monodirezionale.

Siamo cresciuti con la certezza che se uno show non potevamo vederlo in diretta TV c'era un modo (spesso non molto legale) per rivederselo sul Web, ci han detto che c'è spazio infinito per le nostre foto, i nostri brani musicali, i nostri rapporti sociali.

Ci hanno detto che il catalogo Netflix è in continua crescita e invece si perde per strada un sacco di film, ogni giorno.

E' una erosione di dati progressiva e lenta, inesorabile, insospettabile.

A onor del vero alcuni servizi permettono di fare un "backup preventivo", ma tutti questi dati — senza l'infrastruttura che li ha collettati — diventano solo un grosso file zippato che verrà dimenticato sul nostro desktop.

Basta davvero tornare indietro un pochino e scoprire che tutta la nostra presenza digitale, il nostro "io" passato sul web è solo una gigantesca torre Jenga pronta a cadere da un momento all'altro.

Ci stiamo assuefando a questo gioco di equilibrio precario: diamo per scontato che i nostri dati, le nostre preferenze, le nostre foto hanno un valore effimero se salvate su web. 

Pensiamo che le cose importanti da "tramandare ai posteri" sono da stampare e conservare nella cassapanca in fondo al letto mentre quelle pubblicate da qualche parte sull'internet no, sono un piccolo obolo spendibile socialmente per quattro like, da dimenticare quanto prima. 

Ho davvero il terrore di constatare che tutti i miei esami del sangue degli ultimi 6 anni sono ospitati da altrettanto tempo su uno spazio senza dominio, un indirizzo IP fluttuante nel nulla.

La mia biblioteca, quella dei libri di carta, ha già cambiato dominio e software e archivio storico almeno 2 volte in meno di 3 anni.

E se domani Whatsapp facesse la fine di ICQ o Messenger? Sembra un'ipotesi così assurda?

Cosa succederebbe se Instagram diventasse improvvisamente meno appetibile, come lo è diventato Flickr?

Facebook sarà davvero l'unico collettore delle foto dei nostri gattini da qui all'eternità?

O dovremo migrare nuovamente, creare un altro account, e costruire per l'ennesima volta una nuova identità digitale?

E soprattutto, tra qualche mese, quanti dei link riportati in questo articolo saranno ancora funzionanti?


Foto di copertina di Herman Rhoids

Anobii

Duemiladuecento chilometri via web

Devo ammettere che la storia di Paolo De Guidi mi ha affascinato come non capitava da un po'.Ha deciso infatti di percorrere (a piedi) la distanza tra Terni e Cambridge — qualcosa intorno ai 2.200 chilometri.
Ripeto, a piedi.Ok, non è certamente paragonabile alla storia di Alexander Supertramp, però diciamocelo, lasciare un lavoro per intraprendere una sgambettata tutt'altro che raminga dal centro Italia fino in Inghilterra — per raggiungere la fidanzata che lavora a Cambridge — nell'era delle superofferte Ryanair è qualcosa di quantomeno insolito.Duemiladuecento chilometri reali, non con la Wii Fit.E ammetto anche che un po' lo invidio. Io non lo farei mai, però mi coccola l'idea di sapere che c'è gente che ancora è capace di stupire e stupirmi.Paolo nella sua avventura incontrerà centinaia di persone che lo ospiteranno nel tragitto di poco meno di 100 tappe, cento giorni in cui attraverserà l'Italia, la Svizzera e la Francia per approdare in Gran Bretagna (in nave, mica a nuoto).Questo vagare è qualcosa di concreto, reale: lui ora si trova in Svizzera, per dire — esattamente a metà percorso. A volte ha qualche dolore alle gambe, altre volte si ritrova a camminare a -9 gradi. A volte si beve un bel bicchiere di vino in compagnia di perfetti sconosciuti che gli apriranno la porta di casa per una doccia e per riposarsi.Eppure tutto il suo viaggio è incredibilmente impermeato di web: ha pianificato il tragitto con Google Maps, ha trovato sponsor tecnici grazie alla rete, tiene un blog su Wordpress, aggiorna il suo status di Twitter, pubblica foto su Flickr e video su YouTube, si accomoda su divani trovati grazie a CouchSurfing: ha messo in moto un meccanismo molto virtuale per risolvere semplici e complessi problemi reali — e permette di seguire il suo tragitto ad appassionati e curiosi attraverso la rete stessa.A volte queste storie servono a me (e spero a molti altri) per riallacciare un rapporto concreto con la rete: dove persino i pizzicotti sono virtuali e dove un server perduto nelle campagne statunitensi si permette di avvisarci che dovremmo "essere anche amici di", l'avventura di Paolo mi ha ricordato di quanto è possibile fare e organizzare concretamente grazie al Web.

Le frange terroristiche non usano Facebook

Ieri sera, mentre guardavo il TG, il nostro Presidente del Senato Renato Schifani ha paragonato gli ormai famosi gruppi di Facebook sul lancio del souvenir in faccia a Silvio Berlusconi a certe sigle estremiste e violente degli anni '70.


Le opinioni spese in questi giorni a riguardo sono tante e tutte diverse: c'è chi dice che la rete è solo un medium e chi dice che insomma, la spazzatura c'è e si vede, e che forse un giro di vite (qualsiasi cosa significhi) sarebbe il caso di attuarla.Ricordo che da piccolo mio padre tornava a casa dall'ufficio con delle vignette umoristiche ricevute attraverso i primi fax e telex e poi fotocopiate da collega a collega. 

Nei tempi in cui le tangenti erano chiamate bustarelle queste primitive strisce, palesemente amatoriali, erano satira self-made spedita e "viralizzata" coi mezzi che c'erano.

Oggi niente è cambiato: una battuta fatta tra colleghi, o sentita al bar " viene trasmessa solo in modo più veloce e capillare attraverso gli SMS, o gli status dei social network, o ancora con la voce, alla macchinetta del caffè " e poi successivamente ampliata, perfezionata, trasmessa da un non-luogo verso gli schermi di tutti i conoscenti connessi.

Al bar — il giorno dopo l'attentato a Silvio Berlusconi — non c'era persona (di qualsiasi schieramento politico, sia chiaro) che non abbia anche solo minimamente ironizzato sull'accaduto: perché se è vero che nessuno è così barbaro da scagliare o avvallare il lancio di un modellino sulla faccia di qualcuno è vero anche che, vuoi per l'esuberanza del nostro Presidente, vuoi proprio per il simbolo della "sua" città piombatogli in faccia, vuoi perché alla fine "non è morto nessuno" la battuta era facile, troppo facile. Certo, di bassa lega, ma l'occasione era ghiotta per chiunque.

Un modellino di Duomo non è una torta di panna — taglia labbra, spacca denti: ma chi ha scherzato deve per forza essere un estremista o un violento? Non credo proprio. Ma anche se lo fosse questo non è un problema della rete o di Facebook. L'unica differenza che noto è che tutte le conversazioni dentro la rete possono essere in qualche modo tracciate, analizzate, controllate, monitorate — o, per dirla in breve — intercettate.

I fax umoristici che riceveva mio padre no, e lo stesso vale per le battute da bar.Paradossalmente questa strana forma di libero controllo spaventa i nostri politici, ed è assurdo: sapere che 10.000 persone criticano aspramente una cosa sul web non è poi tanto diverso dal sapere che 10.000 persone lo fanno davanti ad un cappuccio e un cornetto.
Chi ne sta fuori spesso ne ha paura (mia madre mi ha telefonato per assicurarsi che io non fossi iscritto a "quei gruppi" sull'internet), e lo stesso vale per la nostra attuale classe politica. 

Nessun "illuminato" censurerebbe anche solo minimamente un mezzo del genere.I gruppi di Facebook a differenza del bancone del bar conteggiano, mostrano dati, cifre, nomi e foto.

Per i politici il web dovrebbe essere una immensa urna elettorale aperta 24 ore su 24, il modo più economico, immediato e potente per conoscere gli umori del popolo " certamente qualcosa che non si può regolarizzare con 4 filtri DNS e una palata di censura.

Il web è molto più trasparente e cristallino di tante altre forme di comunicazione, ma ha un carattere decisamente meno malleabile. Che sia questo il problema?