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A momentary lapse of reason

Se c'è un segreto, solo uno, sulla corsa, quello da sussurrare nell'orecchio al miglior amico come se fosse un oracolo è: "trova il tuo momento di rassegnazione e trovalo il prima possibile".

Ho individuato delle fasi, costanti, durante un allenamento — breve o lungo che sia, che appongo qui: non che serva a qualcuno se non a monito per me stesso.

Solitamente succede così: i primi metri corsi generalmente li chiamo "la negazione del corpo". Un po' per il freddo, un po' per il comfort casalingo: qui i miei muscoli si muovono ancora più lenti, ogni piccolo dolore fisico si fa sentire subito, tutto il corpo disapprova la scelta di essersi messo in moto. È come se ogni fibra e osso urlasse che cazzo fai in direzione del sottoscritto. Solitamente questa fase dura molto poco, al massimo 5 minuti. Le gambe sono legnose e i movimenti sono meccanici. Il blando dolore è muscolare, osseo, corporeo e tangibile ma decisamente sopportabile.

Appena il sangue irrora meglio i muscoli ogni disagio muscolare sparisce, il fiato diventa regolare, le anche seguono le gambe, gli occhi si alzano dalla strada e finalmente posso guardarmi intorno.

Visualizzo il percorso che mi resta illuminato come se fosse una side quest di qualche nuovo videogioco, immagino le strade e persino le persone che potrei incrociare.

Questa fase di pace transitoria dura generalmente 15-20 minuti: tutto va splendidamente bene, il vento nei capelli, il sole sulla pelle, tutto il catalogo dei luoghi comuni sulla corsa e quanto faccia bene farlo.

Fino all'arrivo di lui, il cervello, il mio Harvey Dent, il due facce: la mente, che affascinante stronzetta.

Per intenderci Mattew Inman l'ha disegnata così, come un grasso putto.

Perché sì, negli allenamenti  la mente gioca sempre sempre sempre al ribasso, al piatto più magro, al premio di consolazione.

Vuoi correre 10 chilometri? E perché non 7? Anche sette van bene, sono solo 3 in meno. E poi non hai un impegno? Riesci ad arrivare a casa in tempo? Attento a quell'incrocio, a quel sasso, a quel tombino. Qui tutto vuole ucciderti, è un mondo crudele. Stai sudando troppo. Cosa era quel dolorino al ginocchio? Stai ascoltando musica di merda.

Non prendere quella strada: non sai dove ti porta.

Non ce la farai a tornare a casa, dovrai camminare. Guarda che spazzatura, attento a quel camion, non era il tuo vicino di casa quello che rideva di te dentro ad un SUV? Sei al nono chilometro, se ne vuoi davvero correrne 20 forse devi passare in quello schifo di zona industriale. Sei stanco.

Non hai il cellulare con te, non c'è acqua, finirai ucciso in un fosso. Se vai a destra ci sarà una salita e tu anzi noi siamo dei deboli. E che mi dici ancora di quel dolorino al ginocchio?


E tutto questo fino all'arrivo a casa. È un'eterna battaglia, a volte è divertente, a volte è sfiancante. È la resilienza alla corsa.

A volte invece capita il magico momento dell'"accettazione dell'inevitabile".  Questo stato di obbedienza mentale lo noto spesso nei corridori professionisti perchè li vedo concentrati sul ritmo, non si guardano in giro come dei giapponesi a Venezia.  Invece per un tapascione come me è raro come trovare un Pokémon Mewtwo:  arriva e dura una frazione di secondo, ed è bellissimo.

Scatta come scatta una chiave in una toppa e spegne immediatamente la vocina della mente. Silenzio mentale. Probabilmente la differenza tra un amatore e un professionista sta proprio qui, proprio in quanto rapidamente un podista raggiunge questa condizione che — almeno sulla carta — è una condizione paradossalmente deprimente, di cieca obbedienza e asinina rassegnazione.

Però non c'è più una seconda personalità, torno ad essere uno solo, io.

La stanchezza rimane ma si affronta, come le salite, la puzza di stallattico e i paesaggi desolati. Tutto rimane uguale a prima, ma tutto viene messo in ordine, tutto torna al suo posto.

Probabilmente il ritmo rallenta ma è confortante sapere che ogni dubbio diventa certezza. Ogni sentiero mi porterà "da qualche parte", vivo qui da 40 anni, dove vuoi che finisca se non in bocca a qualche tangenziale. Un chilometro in più o in meno diventa un'occasione per scoprire che c'è dietro alla tenda. Se pioverà starò bene, se non lo farà pazienza. Ogni passo segue il precedente.

La mia mente si è rassegnata e non oppone resistenza, non si inventa dolori, non immagina problemi inesistenti: probabilmente sto pure sorridendo, illudendomi di poter correre all'infinito.